Neuromarketing: la verità dietro le nostre scelte d’acquisto

Il termine “neuromarketing” è stato coniato da
Ale Smitds nel 2002 ed è l'applicazione delle conoscenze e delle pratiche neuroscientifiche al marketing, allo scopo di analizzare i processi inconsapevoli che avvengono nella mente del consumatore e che influiscono sulle decisioni di acquisto o sul coinvolgimento emotivo nei confronti di un brand.
Questa disciplina prende spunto da altre scienze che, negli anni, hanno dimostrato la loro utilità per la comprensione dei comportamenti del consumatore: è comune trovare, nella letteratura e negli studi condotti in quest’ambito, riferimenti a delle conoscenze appartenenti all’
economia comportamentale e alla
psicologia cognitiva e sociale. L’intreccio di queste discipline permette di costruire un quadro molto più completo sul consumatore e sulle motivazioni inconsce che guidano le scelte quotidiane.
Rappresenta una soluzione complementare alle
ricerche di mercato tradizionali, poiché fornice delle soluzioni ad alcuni problemi e limiti correlati a quest’ultime. Partiamo dal presupposto che l’uomo non dice sempre la verità su ciò che pensa: vergogna, pregiudizi o paura del giudizio altrui, possono condizionare le risposte a questionari e focus group (gruppo di persone selezionato da studiosi e impegnato nella discussione di un argomento prestabilito, allo scopo di determinare le idee e gli orientamenti di fondo di un insieme più vasto di persone).
Oltre a ciò che si sceglie di non dire, vi sono svariati fattori che influiscono sulla percezione senza che gli individui ne siano realmente consapevoli. Secondo
Gerald Zaltman, il 95% delle decisioni di consumo viene influenzato da processi che coinvolgono l’
inconscio e sono quindi di tipo irrazionale. Nell’arco di una giornata siamo continuamente esposti a innumerevoli input sensoriali: annunci pubblicitari, spot, cartelloni stradali, design di prodotti ed esperienze di consumo che, se ritenuti rilevanti, vengono mantenuti nella memoria permettendo di collegare nuovi ricordi ad altri acquisti effettuati in precedenza.
Facciamo degli esempi pratici: il Pepsi Challenge Test
Il
Pepsi Challenge test fu realizzato da
Read Montague nel 1975 ed è un
blind test ossia test usato nell'ambito della ricerca di marketing per chiedere ai consumatori di testare prodotti o packaging senza che questi siano a conoscenza delle marche a cui appartengono. Lo scopo è ottenere dei feedback neutrali e privi di eventuali condizionamenti determinati da associazioni o ricordi legati al brand.
Il consumatore si troverà nella condizione di scegliere tra due tazze bianche contenenti una Pepsi e una Coca-Cola. Contemporaneamente l’esperto ha utilizzato la tecnica della
risonanza magnetica funzionale per analizzare l’attività cerebrale dei partecipanti in corrispondenza dei diversi stimoli a cui erano sottoposti.
I risultati hanno dimostrato che la maggioranza delle persone coinvolte, pur non sapendo inizialmente di quale bevanda si trattasse, preferiva la Pepsi. Quando veniva mostrata la confezione del prodotto ai soggetti, la maggior parte mostrava una preferenza per la Coca-Cola, convinta che il sapore migliore appartenesse a questa bevanda.
Le risonanze magnetiche hanno rilevato una maggior attivazione del
putamen durante il consumo della Pepsi rispetto a quello della Coca-Cola. Il dato, in particolare, indicava che ad essere preferito era il primo gusto poiché arrecava nei consumatori una sensazione di piacere più grande. Nonostante ciò, in corrispondenza della visualizzazione del
packaging di Coca-Cola si verificava l’attivazione della
corteccia prefrontale mediana, da cui dipende il
meccanismo di discernimento, valutazione e giudizio. Questi processi cognitivi di ordine superiore si sovrapponevano alla sensazione di maggior piacere generata dal sapore della Pepsi.
Come mai succede questo?
La
brand image della multinazionale aveva avuto un impatto formidabile sulla percezione dei consumatori: la Coca-Cola veniva associata ad un immaginario fondato su valori e suggestioni macinate dagli utenti in anni e anni di pubblicità, incontri e utilizzo.
Questi elementi e queste associazioni riuscivano a condizionare non solo la loro scelta ma anche la loro percezione del prodotto.
Tutti noi siamo portati a pensare che il brand che più ci colpisce e impressiona sarà anche il brand che ha in vendita i prodotti migliori. La costruzione della brand image non è un processo semplice a compiersi, presuppone tutta una serie di attività che bisogna curare nei dettagli. Ciò che conta di più è riuscire a comunicare al consumatore:
affidabilità, valore e qualità.
Autore:
Maria Chiara Anigello
Maria Chiara Anigello è Junior Digital Strategist presso PKE srl, società nata per gestire i database delle professioni sanitarie e la creazione di comunità profilate sulla rete internet, laureata in biologia e applicazioni biomediche presso l’Università di Parma. Dopo l’esperienza come Product Specialist, ha implementato le sue conoscenze frequentando il master in Management del settore Sanità, Pharma e Biomed presso la 24ORE Business School di Milano.
Segui Maria Chiara Anigello: